

Ancora oggi c’è chi si chiede se Robert James Fischer sia stato il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi, candidando come possibili alternative ora Kasparov, ora Capablanca, ora Tal - quando non il folle predecessore americano Paul Morphy.
735 partite di Bobby Fischer analizzate dal GM Karsten Müller
Ancora oggi c’è chi si chiede se Robert James Fischer sia stato il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi, candidando come possibili alternative ora Kasparov, ora Capablanca, ora Tal - quando non il folle predecessore americano Paul Morphy.
La domanda è del tutto oziosa. Bobby Fischer è stato, molto più semplicemente, una delle maggiori icone del Novecento.
Nessuno come il prodigio di Brooklyn è riuscito a personificare le contraddizioni del secolo breve. Alfiere dell’Occidente contro lo strapotere del blocco comunista, nacque ebreo e morì feroce antisemita, impersonò il sogno americano e inneggiò all’11 settembre, fu temerario innovatore e inflessibile reazionario, seppe catalizzare le attenzioni dei media ma rifuggiva il contatto umano. Non sorprende allora che proprio Bobby Fischer sia il campione più amato e odiato della storia degli scacchi. Il suo fascino ipnotico e certamente maudit ha stregato Henry Kissinger e George Bush, Fidel Castro e Che Guevara, la CIA e il KGB, il parlamento islandese e quello giapponese, per tacere del Cremlino e di tutto il gotha scacchistico sovietico.
Dal punto di vista sportivo, la sua carriera è unica e epica. Tra i primi al mondo già da adolescente, la sua irresistibile ascesa fu costellata da bizzarrie continue e da profonde intuizioni sul ruolo dello scacchista professionista. Logorato dal suo stesso genio, interruppe a più riprese l’attività agonistica, fino a quando non si convinse a preparare l’ultimo assalto. Era il 1970. Da allora dominò ogni competizione cui prese parte, fino all’indimenticabile e vittorioso match di Reykjavik contro Boris Spasskij nel 1972.
Da una sua idea, l’orologio di Fischer, sono nati gli scacchi moderni e da un’altra sua creatura, il Fischerandom, potrebbero nascere quelli del futuro.
Ancora oggi c’è chi si chiede se Robert James Fischer sia stato il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi, candidando come possibili alternative ora Kasparov, ora Capablanca, ora Tal - quando non il folle predecessore americano Paul Morphy.
La domanda è del tutto oziosa. Bobby Fischer è stato, molto più semplicemente, una delle maggiori icone del Novecento.
Nessuno come il prodigio di Brooklyn è riuscito a personificare le contraddizioni del secolo breve. Alfiere dell’Occidente contro lo strapotere del blocco comunista, nacque ebreo e morì feroce antisemita, impersonò il sogno americano e inneggiò all’11 settembre, fu temerario innovatore e inflessibile reazionario, seppe catalizzare le attenzioni dei media ma rifuggiva il contatto umano. Non sorprende allora che proprio Bobby Fischer sia il campione più amato e odiato della storia degli scacchi. Il suo fascino ipnotico e certamente maudit ha stregato Henry Kissinger e George Bush, Fidel Castro e Che Guevara, la CIA e il KGB, il parlamento islandese e quello giapponese, per tacere del Cremlino e di tutto il gotha scacchistico sovietico.
Dal punto di vista sportivo, la sua carriera è unica e epica. Tra i primi al mondo già da adolescente, la sua irresistibile ascesa fu costellata da bizzarrie continue e da profonde intuizioni sul ruolo dello scacchista professionista. Logorato dal suo stesso genio, interruppe a più riprese l’attività agonistica, fino a quando non si convinse a preparare l’ultimo assalto. Era il 1970. Da allora dominò ogni competizione cui prese parte, fino all’indimenticabile e vittorioso match di Reykjavik contro Boris Spasskij nel 1972.
Da una sua idea, l’orologio di Fischer, sono nati gli scacchi moderni e da un’altra sua creatura, il Fischerandom, potrebbero nascere quelli del futuro.